Un sabato così

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Certe volte, stare in questo partito è veramente difficile.

Fare una Leopolda anche quest’anno, in cui si governa, è una buona idea.

Sia in termini generali, di dibattito interno e di dinamica di area – come viene spiegato bene qui da Nicolò – che in termini tattici, perché serve, come nota Claudio Cerasa, a rendere plasticamente evidente il “valore aggiunto” di Renzi rispetto al PD, la sua capacità di catturare anche chi non è un elettore tradizionalmente di sinistra.

A prima vista, però, la strategia retorica scelta per l’appuntamento di quest’anno è molto muscolare. Come ovvio, si continua a spingere sui punti di forza – il futuro e il nuovo, la rottura di schemi vecchi, e soprattutto la ripetizione del canovaccio “ridevano di noi, e ora invece guardate cosa siamo riusciti a fare in così poco tempo”, reso visibile nei manifesti delle previsioni sbagliate. Ma si è deciso di giocare molto anche sulla polemica con “chi rema contro”, che siano i “gufi rosiconi” degli ultimi mesi (a proposito, ho letto in giro che lì siano in vendita le magliette “Gufi? No grazie”. Qualcuno può, per il bene dei miei nervi, smentire?) o quelli che oggi stanno riempiendo piazza San Giovanni, a Roma, per manifestare contro il Jobs Act.

Una manifestazione-corteo vecchio stile, a Roma, su un tema come quello del lavoro e a guida CGIL, come forse può immaginare chi ogni tanto passa da qui, non è molto nelle mie corde. E la cosa più spiacevole, per me, è la partecipazione di grossi pezzi della minoranza PD – e di Civati in particolare (lo so, torno sempre lì).

Perché Civati, sul lavoro, non la pensa come la CGIL. Un po’ di tempo fa, durante le primarie per la segreteria, mi ero messo ad analizzare i programmi dei candidati, e dopo aver letto quello di Civati ne avevo tratto una sensazione di dissociazione: un programma cioè che aveva contenuti forti, “liberali” ma davvero eh, e che però aveva scelto come costituency di riferimento – tramite il lessico, tramite i rimandi all’album di famiglia, tramite tutta la struttura formale – gente che quei contenuti non li avrebbe capiti mai, men che meno apprezzati. Sul lavoro, ad esempio, la proposta di Civati era quella di Tito Boeri (e, sebbene ci siano differenze anche di una certa rilevanza con la proposta di #èpossibile, sembra che il nucleo rimanga quello): ma la proposta di Boeri è molto, molto più vicina a quanto si sa del Jobs Act che ad ogni possibile riforma Camusso e Landini possano avere in mente.
Quella scelta lì, di rifarsi a un vocabolario e quindi a una costituency ben specifica, a me era parsa una scelta sbagliata fin da allora: adesso, vedere Civati ormai politicamente costretto a rifugiarsi in quel contesto lì, ad andare a traino della CGIL – perché sia chiaro, il valore politico della piazza di oggi è pari a quello della manifestazione del 2002: “gli appaltatori della sinistra sul lavoro siamo noi, le mani sul volante sono le nostre” – mi fa pensare che avevo ragione.

Ora, non credo ci sia bisogno di ripetere perché a mio modestissimo parere le ricette di Camusso e Landini (o di Fassina, per citare un non sindacalista) non siano né auspicabili né percorribili, mentre parecchi dei punti centrali del Jobs Act emersi finora vadano nella direzione giusta: quindi, a Roma no, grazie.

Alla Leopolda invece andrei – nonostante tutto continuo continuo ad avere interesse per quel progetto, per quell’area del partito. Ma mi siederei ai tavoli tematici, proverei a lavorare su alcuni temi che mi stanno a cuore e su cui (paradossalmente) sono ancora “minoranza della maggioranza” – la giustizia, il discorso scientifico, il lavoro stesso. Ritrovarmi circondato da continui riferimenti a “gufi”, “quelli che sanno solo protestare” eccetera – essere circondato da questo frame tossico – mi farebbe però sentire un po’ a disagio. Comprendo il calcolo che sta dietro all’utilizzo di questa retorica, non dico di no. Ma non riuscirei a evitare di provare una certa amarezza.

Certe volte, stare in questo partito è veramente difficile.

La parola liberismo

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Tutti abbiamo avuto, almeno una volta nella vita, un momento “le parole sono importanti”.

Avete presente, no? La scena di Palombella Rossa in cui Nanni Moretti-Michele Apicella viene intervistato e dà di matto per quel modo assurdo in cui parla la giornalista, per quell’uso – diremo così – eccessivamente svagato delle parole.

Ecco, a me un momento così è capitato stamattina, sul tram.

In questi giorni sto leggendo Forza lavoro, l’ultimo libro di Maurizio Landini. Chi ogni tanto passa di qui magari sa che quello del lavoro, e della sua riforma, è un tema su cui da tempo cerco di imparare qualcosa, leggendo qua e là, sperando di riuscire a farmi un’idea il più possibile complessa e ragionata. Quindi mi son letto tante cose, Ichino, Fassina, Gallino, Boeri, Gutgeld, report di agenzie ed enti di ricerca nazionali e internazionali, e mi sembrava sensato includere anche la prospettiva di un sindacalista di primo piano – nell’attesa di iniziare il libro di Marianna Madìa sui precari, con prefazione (particolare significativo) di Susanna Camusso.

Come prevedibile, in tempi in cui il dibattito pubblico vibra ancora dell’eco dei bisticci infiniti ed avvilenti su Marchionne, Pomigliano e Fabbrica Italia – più che un’analisi tecnica il libro di Landini è essenzialmente una chiamata alle armi, un appello a ritrovarsi intorno a parole d’ordine e visioni generali che dovrebbero tornare a delineare in maniera concreta il profilo del mondo del lavoro italiano ed europeo: diritti, democrazia, investimenti  e ricerca, responsabilità, ambiente, lotta al precariato, beni comuni.

Il che, però, è anche un grande limite del libro: al netto delle ricostruzioni di alcune vicende specifiche, in cui Landini e la Fiom sono stati coinvolti in primo piano, e su cui dunque il racconto è ricco di particolari e dettagli sfuggiti alle cronache un po’ tagliate con l’accetta dei giornali, quello che resta è appunto l’impressione che oltre alle parole d’ordine ci sia poco altro. A parte il fatto che devo ancora trovare qualcuno che sia contrario, per citarne solo una, a “restituire dignità al lavoro e ai lavoratori”, dalle pagine di Landini vien fuori uno scenario ideale bellissimo: ma come si faccia ad arrivarci, al di là delle intenzioni, rimane poco chiaro.

Comunque.

Stamattina, dicevo, mi sono imbattuto in questa frase: “Oggi, dopo anni di globalizzazione e di liberismo, si sta verificando un inabissamento di massa verso la povertà.”

Ed è stato lì che ho pensato che è vero, le parole sono importanti, e che da molto tempo il dibattito pubblico italiano è bloccato da giganteschi qui-pro-quo e perniciose abitudini al “sentito dire”. Perché no, Maurizio: semmai, oggi, dopo anni di microprotezionismi di fatto, ambigue legittimazioni di monopoli, raffigurazioni caricaturali di pubblico e privato, che nulla hanno a che fare col liberismo ma sono stati propagandati come tali sia da destra che da sinistra, si sta verificando un inabissamento di massa verso la povertà. Le dinamiche a cui abbiamo assistito, e a cui possiamo ricondurre gran parte dei motivi strutturali della crisi del nostro paese, non hanno nulla a che fare col liberismo, che nel dibattito italiano somiglia tanto alla parola felicità come la intendeva Kant: un nome vuoto, che ciascuno riempie un po’ come vuole. E in Italia il nome vuoto del liberismo è stato riempito, da una parte e dall’altra, con cose che a chi il liberismo l’ha concettualmente costruito farebbero rizzare i capelli in testa dallo spavento e accapponare la pelle dall’orrore. Ben vengano, allora, contributi come quelli inclusi nel nuovo numero di IL (questo, o quest’altro), che se non altro ci aiutano a impostare meglio i termini del discorso, ad avere più chiara la situazione com’è da noi, a diradare almeno un po’ le nebbie che avvolgono il dibattito italiano e se lo tengono ben stretto.

Perché è vero. Le parole sono importanti.