In difesa di Claire Underwood

ClaireUnderwood

Premetto che House of Cards non sono riuscito a vederlo tutto.

Non ho resistito. Ho mollato all’inizio della terza stagione.

Per carità, Kevin Spacey è bravissimo, l’idea è interessante e probabilmente la realizzazione è realistica ed accurata, ma è difficile superare l’impressione che non sia tanto Frank Underwood ad essere un genio della politica, quanto tutti gli altri intorno a lui dei bambacioni deficienti. Come se lui fosse l’unico professionista, l’unico a conoscere le vie oblique della politica, che spesso richiedono passaggi e acrobazie, qualche compromesso e un po’ di mal di pancia, mentre i suoi colleghi Congressmen passassero da Capitol Hill per caso.

C’è però almeno un momento notevole, all’inizio della prima stagione, che tuttavia non ha a che fare con Frank Underwood, né direttamente con la “politica” raccontata nella serie. Si tratta della moglie, Claire.

Claire dirige una società no-profit, la Clean Water Initiative, e sta disperatamente cercando di convincere una giovane e brillantissima laureata di Stanford, Gillian Cole, a entrare nel suo staff e a lavorare con lei. Addirittura, ha licenziato quasi tutti i suoi collaboratori, per poterle dare tutto lo spazio (fisico e di manovra) di cui può aver bisogno.

Quando finalmente si incontrano negli uffici della CWI, Gillian è molto colpita da alcuni quadri che nota alle pareti: si tratta delle opere di un famoso fotografo, Adam Galloway, molto richiesto e altrettanto quotato nel mondo dell’arte. Cosa che mette Gillian in difficoltà.

“Mi sento un po’ a disagio – dice – a lavorare per qualcuno che può commissionare opere a famosi fotografi, quando io non posso permettermi neanche di pagare ai miei volontari il biglietto dell’autobus per venire in ufficio.”

Claire risponde.

Così.

Gillian, tu sai chi è Nicky Hemler?

(No, Gillian non lo sa.)

Nicky possiede una delle più importanti gallerie d’arte a Chelsea. Voleva a tutti i costi poter rappresentare Adam Galloway. Io l’ho reso possibile, e in cambio lei ogni anno contribuisce con quasi 40mila dollari alla CWI. Soldi che vanno in studi d’impatto ambientale, attività di lobbying, ricerca.

Ecco.

Questa risposta è notevole, perché mostra – in poche parole e con un esempio pratico, pur fittizio – una cosa che chiunque abbia avuto anche solo un pochetto a che fare con il mondo del volontariato e della cooperazione capisce immediatamente.

Che – per parafrasare un vecchio proverbio – di buone intenzioni, entusiasmo e “voglia di salvare il mondo” sono lastricate le vie se non proprio dell’inferno, certo di migliaia e migliaia di progetti falliti.

Competenze ben precise, professionalità, razionalità manageriale e disponibilità a rinunciare alla propria purezza, invece, sono la pavimentazione dei – pochi – progetti riusciti.

Cosa che, incidentalmente, vale anche per la politica. Ma pare sempre brutto ricordarlo.